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Fatti di storia Prima guerra mondiale. Caporetto sconfitta militare (24/10/1917). 1^ parte.

Del dott. Renato Borsotti. Caporetto sconfitta militare; Susegana, dal 1917 terra occupata e di confine.



La Grande Guerra è ancora capace di appassionare, tra lunghe diatribe, studiosi e appassionati di storia?

Tutto è stato analizzato di quella guerra, sotto l’aspetto giornalistico, militare, politico, sociologico e diplomatico: oggi, si sono esaurite le pubblicazioni diaristiche dei protagonisti d’allora, più o meno famosi, tutti scomparsi da tempo, secondo quanto appare nella bandeletta.

Ma gli interrogativi ancora dibattuti, pendono (ma non solo) sul sovrano, Vittorio Emanuele III, fautore ad oltranza dell’intervento dell’Italia a fianco dell’Intesa, quando ancora eravamo vincolati alla Triplice Alleanza (1882) insieme con l’Austria e la Germania. Alleanza questa rinnovata più volte. Il re non aveva punto simpatia per l’imperatore Franz Joseph, voleva a tutti i costi allearsi con Francia e Gran Bretagna, liberiste. Aveva approvato l’elusione alla guerra, proposta dal ministro Antonino Castello Paternò di San Giuliano, una neutralità provvisoria, al solo fine diottenere dalle stesse potenze – ultimati i colloqui segreti con l’Intesa – più vantaggi territoriali, che non dall’Austria, la quale aveva negato che il Trentino, ultima appendice dell’impero, sarebbe divenuta italiana. Era titubante sull’entrata nostra in guerra, atteso che Giolitti, il grande tessitore parlamentare con gli oltre trecento politici, era per la neutralità, come i cattolici, i socialisti e i liberaldemocratici.

La maggioranza del popolo minuto, che non comprendeva i motivi dei guerrafondai, era per la pace, secondo quanto predicava il santo papa Pio X, che poco prima di esalare l’anima, profetizzava l’arrivo del guerrone[1].

Dopo la firma del Patto segreto di Londra (26/4/1915), l’Italia entrò in guerra contro l’Austria-Ungheria, come si vedrà più avanti.

Ancora, l’ombra degli interrogativi pesava sul generalissimo Luigi Cadorna, cui s’addebitò la responsabilità della sconfitta militare. Il suo allontanamento, con la conseguente promozione a rappresentante italiano a Versailles, offrì al generale Diaz la nomina a Comandante in Capo del Regio Esercito italiano ‒ prima conseguenza immediata –[2].

Ultimo, ma non meno importante interrogativo, sulla Commissione ministeriale dell’epoca, sulla quale alla fine s’addensarono troppi pesanti sospetti, nulla avendo deliberato sull’operato del generale d’artiglieria Pietro Badoglio, le cui responsabilità sullo smacco della linea dell'Isonzo apparivano assai gravi e compromettenti.

Anzi, promuovendolo a vice comandantedel neo nominato Capo di SME, con il gen.  Gaetano Giardino, già ministro della Guerra, si compì il coronamento dell’affaire.

Con la nomina di Diaz, le nuove funzioni militari di Giardino e Badoglio, si diede luogo ad un avvicendamento nel governo, sollecitato dagli Alleati.

Sembra certo, anche se non confermato, che dal documento della Commissione, siano state stralciate tredici pagine, riguardanti proprio l’operato badogliano [3].

È, a dir poco, strano che i due maggiori Comandanti del fronte, Cadorna e Capello, entrambi verbanesi, di Pallanza il generalissimo e d’Intra il suo vice, Capello, rivaleggiassero a tal punto da non potersi sopportare l’un l’altro.

Severo, scostante, presuntuoso, irascibile, estremamente esigente e rigoroso, dall’ego straripante, il Cadorna, quanto ilare e bonaccione il secondo, molto estroso, chiacchierone soprattutto con i giornalisti e le firme eccellenti del Corrieree d’altri quotidiani, al fronte.A detta di molti, Capello risultava essere il migliore generale di quegli anni, nonostante la malattia. L’uno attendista, sulla difensiva, mentre l’altro era per l’offensiva ad oltranza (Capello). Non si comprendevano: l’uno dava ordini precisi ed insindacabili, da eseguirsi all’istante, l’altro più possibilista e socievole. Entrambi con la complicità del Badoglio furono i diretti responsabili della sconfitta a Caporetto, ancorché da subito il Cadorna, appena informato, con ritardo, dei fatti sulla notte del 24 ottobre, riversasse sull’ignavia, l’indisciplina,la codardia e il disfattismo dei militari della seconda Armata (Capello), la colpa della tragedia interna. E si inventò la disfatta di Caporetto.

La battaglia di Caporetto fu la 12ª isontina. La cittadina era stata occupata dall’Italia nel 1915, ma l’azione concertata dagli austro-tedeschi dal 24 ottobre al 9 novembre  di quell’horribilisannus, costrinse i comandi militari (Cadorna) a ripiegare in disordine caotico per attestarsi, dopo una prima sosta forzosa al Tagliamento, sulla linea Grappa-Piave (10/11/1917), con  Armando Diaz Comandante Generale.

Ma come si arrivò alla “cocente sconfitta” di Caporetto?

Molte le cause, aggravate da concause ancor più determinanti.Altrove, s’è scritto sulle luci ed ombre sul generalissimo, che portarono alla sconfitta militare[4]. Qui, si ribadiscono. Cadorna, nonostante gli avvertimenti dei Servizi Segreti, non diede ascolto alle informazioni precise anche di disertori nemici, non tenne conto né della rivoluzione russa, atteso che le truppe austro-ungaricheattestatesu quel fronte furono dirottate a rinforzare quello italiano; né, sulla parte occidentale, dopo il fallimento dell’offensiva del comandante in capo Nivelle, l’esercito francese era da tempo sulla difensiva.

Era convinto che nessun attacco sarebbe stato sferrato contro la nostra fronte.

E, invece…l’attacco austro-germanico, durissimo, iniziò alle due della notte sul 24 ottobre, con un bombardamento fittissimo d’artiglieria, premonitore di quanto sarebbe accaduto: nessuno dal fronte italiano intuì.

Il Colonnello Angelo Gatti, capuano, nel comando supremo "capo dell'Ufficio storico", di fatto "storico a futura memoria della guerra italiana", sul Diario, ritornando quella notte dal cinematografo, scrisse: Nulla di nuovo al fronte.

Invece, al fronte, era successo di tutto, anche l’accerchiamento del monte Nero da parte dei giovani alpini del 1° Ten. Ervin Rommel (Alpenkorps): la manovra aveva di fatto preso alle spalle il nostro esercito. Alla guida del reparto di punta del battaglione da montagna del Württemberg, il giovane ufficiale tedesco raggiunse una serie di brillanti successi, impiegando con abilità tattica d’infiltrazione lungo le montagne e catturando molti italiani. In particolare, furono i suoi soldati che sbaragliarono le brigate Arno e Salerno,conquistando il  Matajur, la montagna di Cividale del Friùli (26/10/1917).

Alle 8.30 del mattino terminò quel furibondo attacco nemico, e la pioggia fittissima fino allora, lasciava posto alla più fitta nebbia, concausa del mancato avvistamento delle truppe nemiche (ma si disse, anche, che la nebbia non ci fu).

Pioggia in pianura e nevischio e neve nelle più alte quote: gli alpini a fatica salivano sotto i colpi dei nemici.Troppo tardi.

Quando dal comando supremo si resero conto della mal parata, gli alpini tedeschi (e non austriaci) avevano completato l’aggiramento del Monte Nero (altra montagna di Cividale), occupando Udine, sede del comando generale italiano, quasi senza colpo ferire: si era consumata la cocente sconfitta di Caporetto.

Da qui, la tragedia italiana non solo sotto l’aspetto prettamente militare, ma anche e soprattutto per la popolazione civile coinvolta, che dovette fuggire, ritirandosi nel Veneto, nel disordine più assoluto, come vedremo tra poco e da lì, in altre località della penisola.

Gli austro-tedeschi da Caporetto, Tolmezzo e Udine dilagavano nell’entroterra veneto, spingendosi in provincia di Treviso, costituendo un caposaldo importante nel castello dei patrizi Collalto, principi del sacro romano impero, in Susegana.

Da Treviso, il nostro comando artiglieria, allogato in una villa di viale Cairoli (oggi, sede di scuola materna) mandava ordini per bombardare incessantemente il Castello, facendo ingentissimi danni, non solo alla rocca, ma anche a Susegana centro, quasi diroccata, alle coltivazioni nell’immenso territorio dei principi, alle mura, alle strutture della fortezza, e, per finire, agli arredi preziosi: mobilio, pinacoteche, biblioteche, tappeti, arazzi, armature edarmi, vasellame, pergamene, bolle medievali in gran numero, irreparabilmente distrutti. Non molti gli oggetti di grande valore storico-artistico dei moltissimi distrutti inventariati: l’imperatore tedesco Guglielmo II ne firmerà l’atto/inventario, presente col cugino Granduca d’Assia, il principe Manfredo V: quei tesori andranno oltralpe.

I vigneti attorno al castello dei nobili Collalto divennero zone interdette: filo spinato,specie di cavalli di frisia con filo spinato, mine anti carro ed antiuomo disseminate sui soleggiati pendii.

Le loro famose cantine furono prese d’assalto: austro-ungarici-tedeschi ubriachi di primo mattino, compivano scorrerie nelle località contermini.

I tini stappati e il vino lasciato scorrere sul pavimento, estremo sfregio: bestialità  della soldatesca. Vini pregiati dal vivace color rubino straripavano per ogni dove, incrociando i ruscelli del profumato nettare bianco.

Le direttrici del grande esodo dei civili si diramavano da Plezzo, sia verso Tolmezzo,  sia verso Gemona. Da Tolmezzo giù con deviazione a Longarone per finire a Belluno e a Vittorio Veneto. Da Gemona, lungo il Tagliamento, verso Codroipo, Pordenone, Sacile e Conegliano. Da Tolmino si scendeva a Cividale verso Udine o verso Codroipo. Un’altra via dell’esodo vide Monfalcone verso Latisana con biforcazione a Ponte di Piave  o a San Donà di Piave. L’esercito italiano, con 33 divisioni dalle 65 in origine, si apprestava a varcare il fiume Piave, a malapena con un quarto delle truppe[5].

Una fuga che fu allontanamento precipitoso per l’incombente pericolo, per un altrove salvifico [6].

Già dal 28/10, sulla direttrice Gorizia – Palmanova, gli sbandati militari si destreggiavano a fatica tra i civili in fuga, entrambi sotto un diluvio di pioggia insistente, uggiosa, penetrante fin nelle carni, che durerà, incessantemente, per giorni e giorni. La catastrofe era nelle case distrutte, incendiate, nelle strade ingombre di teorie di persone sconsolate, in cerca di pace. Fuggiaschi sotto fardelli di roba raffazzonata o di suppellettili, piangenti dentro carretti sgangherati. Erano donne giovani e vecchie, con bimbi piccoli, anziani dai visi scavati senza più speranza.

Soldati sbandati indisciplinati, senz’armi, tentavano il ritorno a casa, mentre la 3ª Armata verso il Piave ripiegava in modo abbastanza ordinato.

Ma faticoso era il suo indietreggiare in quelle condizioni: le ambulanze, i carri, le autovetture militari, i carriaggi, le carrette del popolo si arenavano nel terreno allagato, perdendo tempo per risistemarli sulla statale.

L’unica grande viabilità da Udine verso il mare era lanapoleonica,gremita all’inverosimile di gente in fuga e militari.

In poche parole, basta leggere con attenzione La leggenda del Piave[7], per avere un quadro della tristissima situazione.

Ma in una notte trista
si parlò di un fosco evento,
e il Piave udiva l'ira e lo sgomento...
Ahi, quanta gente ha vista
venir giù, lasciare il tetto,
poi che il nemico irruppe a Caporetto!
Profughi ovunque! Dai lontani monti
venivan a gremir tutti i suoi ponti!

                                                       Nell’originale, tradimento sostituiva il fosco evento (inserito nel periodo fascista).

 

Finalmente il 9 novembre a Susegana (Tv) «il Battaglione Complementare della Brigata Sassari, già schierato in azione ritardatrice sulle alture di San Pietro di Feletto, estremo reparto di retroguardia, supera il ponte della Priula alle ore 16. Passate di corsa anche le pattuglie del 215° Reggimento Fanteria che guarnivano le teste di ponte bruciano le micce e dopo sei minuti, le arcate del ponte che diverrà poi storico, crollano. Sono le 17. Le porte d’Italia sono ormai chiuse al nemico invasore».

Così è immortalato nella lapide posizionata all’inizio del ponte alla Priula, provenendo da Conegliano, ove da anni sul pennone dei famosi Ragazzidel ’99 e dell’Ass. Naz.Comb. e Reduci, sventola il Tricolore perenne, illuminato a sera (opera di chi scrive).

Quel giorno crollarono i tre ponti della Priula: l’antico semidiruto ponticello in legno, quello ferroviario, e quello, ben più importante, stradale. Quest’ultimo collegava e, collega tuttora, Susegana e Nervesa. Allora, il lunghissimo viale era denominato regia strada Postale, poi napoleonica o SS. 13, Pontebbana[8].

Il nemico era isolato. Da qui nasce l’italica riscossa. Sabato 10 novembre, re Vittorio Emanuele III, dal Quartier Generale di Treviso, dettò il proclama della battaglia d’arresto, che della Piave fece il fiume Sacro alla Patria[9].

È la prova che tra il Comando Supremo e gli organi dello Statuto Albertino vi fosse l’abisso, l’incomunicabilità: il Comandante generale era tremendamente solo, come dal primo giorno aveva voluto, unico responsabile del Regio Esercito[10].

Tra il 16 e il 17 novembre 1917, nell’area compresa tra il Molino della Sega (Saletto di Breda di Piave), San Bartolomeo e Fagarè, l’esercito austro-ungarico tentava di sfondare le linee italiane per attestarsi sulla riva destra del Piave, ma trovava una strenua ed inattesa resistenza. Furono due giorni di sanguinosa battaglia che costò la vita a centinaia di soldati dell’una e dell’altra parte, ma la posizione italiana venne mantenuta e quel varco non si aprì.

        Così a metà dicembre vi fu un’altra battaglia definitiva, ed a noi arrise la vittoria. Eroico fu il capitano Francesco Rolando di Susa (medaglia d’Oro alla memoria), che incitando alla lotta i suoi “con impeto fulmineo si gettava sul nemico, passato sulla destra del Piave, fiaccandone in mischie furibonde la disperata tenacia. Con entusiastico sacrificio di sangue contribuiva alla riconquista del primo lembo della Patria invasa, ricongiungendosi nella gloria alle più antiche e fulgide tradizioni dei bersaglieri” (Fagarè, 16-17 novembre 1917; basso Piave, 22/6 e 2-6 luglio 1918: Boll. Uff., anno 1920, disp. 47ª).

       Il Bollettino di guerra del Comando Supremo (n. 907 del 17 nov.1917, ore 13) proclamava: «Dall’altopiano di Asiago al mare, l’avversario senza riguardo di perdite rinnova gli attacchi delle nostre posizioni montane ed i tentativi di forzare nella pianura la linea della Piave.Le nostre truppe con pari tenacia oppongono al nemico preponderante di numero valida difesa e lo contrattaccano con mirabile slancio».

Ancora, lo stesso bollettino: «(Jeri) nel piano, tra Salettuol e S. Andrea di Barbarano, l’avversario forzò all’alba il passaggio del fiume [Piave, NdA]: sotto la protezione di violentissimo fuoco d’artiglieria, sue truppe passarono sulla destra a Follina e a Fagarè. Le prime vennero annientate dalle nostre artiglierie e da un fulmineo contrattacco della Brigata Lecce (165ª e 266ª); i superstiti, oltre 300 con 10 ufficiali fatti prigionieri. Contro quelle numerose passate alla seconda località, fu rivolta l’azione decisa e poderosa della 54ª Divisione, le cui truppe (Brigata Novara, 153ª e 154ª) e la brigata bersaglieri (17° e 18° Rgt.) hanno gareggiato in bravura. Alla fine della giornata restavano sul terreno numerosi cadaveri nemici, erano ricondotti prigionieri oltre 600 soldati e 20 ufficiali ed i rimanenti, addossati all’argine del fiume, erano battuti dalle nostre artiglierie, che ne ostacolavano il ritorno all’altra sponda.

Nell’area di Zenson [di Piave], il nemico viene contenuto in zona sempre più ristretta.

Sul basso corso della Piave la difesa è efficacemente coadiuvata dalla Regia Marina con mezzi aerei, batterie fisse e natanti leggeri.

Favorita dalle condizioni atmosferiche l’opera dei nostri aerei ha potuto nella giornata svolgersi proficua contro ammassamenti di truppe nemiche.  Fto  Gen. Diaz».

L’eroismo dei Ragazzi del ’99, in uno con i commilitoni anziani, con due anni e mezzo di trincea alle spalle, fermarono l’avanzata nemica.

Con la sconfittamilitare di Caporetto, l’esercito sembrò irrimediabilmente votato a soccombere. I nostri soldati erano stati lacerati in continue azioni di logoramento offensive, con successi di portata limitata, come la presa della Bainsizza.

Caporetto rappresentò il punto più basso del conflitto, lasciando penetrare in territorio venetotruppe austriache con sette divisioni tedesche per circa centocinquanta chilometri. Il disastro ebbe il carattere di una fuga disordinata, nel corso della quale gli avversari fecero un enorme numero di prigionieri e un bottino ricco di armamenti, depositi e magazzini, intere batterie di pezzi da campagna, materiali i più vari con posti di soccorso ed ospedali da campo.

Fu Cadorna, per difendersi dalle accuse, a parlare per primo di viltà dei soldati, di disfatta militare, dopo il disfattismo socialista e cattolico. Lo abbiamo visto. «Addusse le menzogne più vergognose e le più spudorate asserzioni»[11].

Successivamente lo stesso generale affermava che «L'esercito cede, vinto, non dal nemico esterno, ma dal nemico interno», volendo in questo modo attribuire la disfatta alle mancanze morali e politiche della nazione.

La minaccia d’invasione era divenuta concreta. La reazione del paese fu immediata ed unanime. Si doveva combattere, respingendo il nemico, per salvare la Patria, la terra, le case, la famiglia, i figli.

Sul piano politico il dicastero Boselli cadde, sostituito da Vittorio Emanuele Orlando, in carica dal 30 ottobre 1917 al 23/6/1919[12].

Orlando teneva per sé il ministero degli Affari Interni, Sonnino agli Esteri, e alla Guerra si alternarono i generali  Vittorio Alfieri, Italico VittorioZupelli, istriano, ed Enrico Caviglia negli ultimi sei mesi.

Armando Diaz mise subito l’accento più sulla propaganda ideologica che sulla brutale disciplina del suo antecessore.

Sul piano militare il Comando Supremo riuscì a contenere l’offensiva nemica, di giorno in giorno deteriorata. 

Sul Grappa e sul Piave, i nostri con il modesto contributo franco-britannico (quelli che vollero, a ragione, la testa di Cadorna) opposero una resistenza che non fu spezzata. Vennero chiamatialle armi, come detto, i ragazzi del ’99 (furono 24 le classi in guerra).

Gli austriaci, raggiunto il massimo del loro slancio offensivo, possibile con il crollo del fronte russo, fermati dall’irruenza dei nostri, e dalla carenza loro di viveri e munizioni, dovettero pensare al ripiegamento.

Dopo Caporetto, la ritirata dei soldati e l’esodo dei civili fuggitivi dalla terre invase si incrociavano secondo una fuga parallela.

Fuga che fu allontanamento precipitoso verso luoghi diversi, civili che in quei giorni di grande confusione si misero in cammino, intralciando anche la ritirata dei militari che ripiegavano: il grosso della 3ª Armata dal Carso al Piave, con quello che rimaneva della II e IV.

Le strade del ripiegamento erano fiumi d’umana congerie in marcia verso un ignoto, che a molti pareva dramma[13].

Donne, vecchi e bambini, provenienti prevalentemente da città come Udine, Treviso e Venezia: dopo Caporetto dell'ottobre 1917, seicentomila civili furono costretti ad abbandonare improvvisamente il territorio invaso o minacciato da vicino dall'esercito austro-ungarico, dando vita alla più grande tragedia collettiva che interessò la popolazione durante la grande guerra. Anche l'Italia conobbe così, come altri paesi coinvolti nel conflitto, il fenomeno dei profughi di guerra, divisi dal dilemma se fuggire di fronte al nemico o subirne l'occupazione, "esuli in patria".

La vicenda dei profughi rappresentò la prima, grande tragedia collettiva che investì la popolazione civile italiana durante la Prima Guerra Mondiale e in termini assoluti la più vasta fino al secondo conflitto mondiale.

La condizione di profugo in Italiariguardò, in maggioranza, donne, anziane e bambini.

Chi erano i profughi e perché fuggivano?

Se l'esperienza della fuga fu l'esodo come scelta di massa,la paura – cui aveva contribuito in modo sicuramente non secondario la propagandata "barbarie" del nemico manifestatasi nei territori già invasi, il Belgio e la Francia in testa – la confusione, la mancanza di informazioni certe, spesso semplicemente il caso, erano le leve della fuga. L'impossibilità di muoversi, il timore di abbandonare beni e parenti, le cause che trattenevano (soprattutto i contadini) dal partire.

La memorialistica e la letteratura, restituiscono con chiarezza la confusione e la concitazione di quei giorni e l'impressione suscitata dallo spettacolo dei civili in fuga accanto ai soldati. La semantica di questi testi contribuisce allo sviluppo della sensazione allora provata.

Un altro nodo rilevante dei primi giorni, fu quello della fuga delle autorità civili e con un significato più ampio, dei borghesi e dei notabili: la così detta "Caporetto interna", secondo il motto italico “Tengo famiglia”. Nella concezioneanche dei Prefetti, Sindaci, medici condotti, insegnanti, nella fattispecie, maestri, prima di dare le opportune indicazioni ai concittadini pensarono a sé stessi, al loro particulare, come è sempre accaduto, da noi. Si è visto nel 1917, soprattutto a Treviso, ove le cd Autorità lasciarono subito l’incarico a qualche sottoposto, mettendosi in salvo con le famiglie.

Perché Treviso? Treviso, doveva essere un punto principale di raccolta di tutti gli esuli dalla Carnia e dal Friùli, per poi provvedere allo smistamento previsto a Milano e a Bologna. Queste due grandi aree avrebbero distribuito gli esuli nelle province più attrezzate a ricevere questa moltitudine di persone in cammino.

Quasi tutte le attuali nostre Regioni accolsero, anche se a malincuore e a volte con disappunto ed anche contrasto violento, nella considerazione, dimostratasi non rispondente a verità, che gli esuli avrebbero portato via il lavoro ai residenti.  Friulani, carnici e tolmezzini emigrarono in Puglia, Calabria e Sicilia.

L'assenza di direttive certe da parte del governo, ma soprattutto d'informazioni ed ordini da parte del Comando supremo (circostanza, quest'ultima, accertata dalla Relazione della Commissioned'inchiestasu Caporetto)furono di sicuro fonti di grandi disorientamenti anche per le autorità. Nel clima concitato di quei tristi giorni molti sindaci, assessori, ma anche medici condotti e maestri ritennero loro dovere mettere in salvo se stessi in quanto depositari di un'autorità e responsabilità da difendere di fronte all'invasore.

A prevalere nell'immaginario collettivo delle classi dirigenti profughe ed in quello della propaganda, fu la figura dell'esule volontario. A distanza da quei tragici eventi, il panico, l'incertezza che aveva provocato l'esodo precipitoso, si trasformarono in un cosciente patriottismo, motore della fuga di centinaia di milioni di persone dalla propria "piccola patria" alla volta di quella più grande, l'Italia. Questa narrazione dell'identità del profugo, intessuta da quella classe dirigente che aveva abbandonato la terra d'origine insieme a tanti concittadini, aveva però un chiaro valore politico ed una funzione assolutoria nei confronti di un comportamento che era letto come irresponsabile (nella migliore delle ipotesi) dalla popolazione rimasta. Questa autorappresentazione, solo parzialmente coincidente con la lettura che la maggioranza dei profughi dava della propria condizione, avvolgeva con la forza i "rimasti" in un silenzio colmo di sospetto, che alla fine della guerra si sarebbe trasformato in aperta diffidenza per quanti non erano fuggiti "per ignoranza del pericolo", come vergognosamente si diceva.

In questa prospettiva i profughi erano rappresentati come una collettività indistinta e resa omogenea da una tragedia collettiva. Immagine, quest'ultima, sfatata non solo dalle differenze di classe che attraversava la popolazione profuga, ma anche dalla distanza (spesso dalla vera e propria diffidenza) che divideva la parte veneta da quella friulana: la prima fuggita sotto la minaccia di un'occupazione mai veramente arrivata, la seconda emigrata dalle terre propriamente invase. I soldati italiani dopo Caporetto. Un’altra prova, a volte, non sempre di viltà, dopo la sconfitta.

Una delle ricostruzioni, che a posteriori furono fatte su queste fughe, fu sullo svolgimento delle modalità di fuga dalle varie province, smentendo il luogo comune che voleva la fuga dalle province venete non invase, come fuga volontaria e sostanzialmente di classe.

Si ricostruirono le dure condizioni di vita dei profughi durante la Grande Guerra attraverso relazioni con i prefetti, documenti del Ministero degli Interni e del Comitato Parlamentare Veneto o dell'Alto Commissariato per i profughi di guerra, ma soprattutto attraverso le lettere scritte ai deputati veneti e friulani o ai comitati per chiedere soccorsi e sussidi (è formalizzata solo nei primi mesi del 1918 dopo una prima fase in cui l'assistenza era garantita dai vari comitati locali e dalle autorità di pubblica sicurezza) all'assegnazione di alloggi, ma descrive i difficili rapporti tra profughi, autoctoni ed autorità. La diffidenza nei confronti dei rifugiati, che aveva dopo poco seguito l'iniziale ondata di solidarietà della popolazione locale, era motivata più dalla difficoltà dell'approvvigionamento di generi alimentari nell'ultimo anno di guerra che dalle già note differenze culturali tra i residenti ed i nuovi arrivati.

L'altra faccia di questa diffidenza nei confronti dei profughi, peraltro spesso ridotti ad una sostanzialità imposta per ragioni d'ordine pubblico, erano le forme di sospettoso controllo riservate loro dai prefetti edalle autorità locali. I profughi erano sospettati d'essere oziosi e le donne profughe, di essere di facili costumi o peggio. Esse avevano caratteri peculiari, dovuti alle difficoltà femminili lontane da mariti e compagni; a causa della scomposizione dei nuclei familiari dovuti all'esodo[14].

Analizzata la situazione venutasi a creare nel Friùli e nel Veneto, parzialmente invaso, vi sono alcuni punti – importanti – da chiarire, sotto il profilo storico.

Il Re, abbiamo visto, con Salandra e Sonnino, nella neutralità del 1914-15, tramava per entrare nell’Intesa, avendo a disdoro l’Austria ed il suo imperatore, preferendo, invece, l’Inghilterra, con Francia e Russia. La trama fu segretissima, tanto che nemmeno il governo, né il Parlamento ne erano stati messi a partito.

Da qui, il piano tattico-strategico studiato a tavolino dal generalissimo Cadorna. Lo sfondamento italiano avverrà contro la Francia e paesi satelliti.

Quando con il Patto di Londra (26 aprile 1915) si conobbe la vera natura dell’alleanza italiana e con quali nuove nazioni unirsi, anche per la delazione russa, da parte bolscevica giunta al potere, dopo la rivoluzione di quel paese(fine 1917), scoppiò il caos.

Il governo rivoluzionario diede immediata e massima pubblicità ai patti diplomatici segreti rinvenuti negli archivi zaristi, e tra essi il "Patto di Londra".

La pubblicazione ebbe vasta risonanza internazionale e causò grave imbarazzo al sovrano, V.E. III, e alle potenze firmatarie, suscitando inquietudine presso l'opinione pubblica mondiale e ponendo in scacco il metodo della "diplomazia segreta", seguito da decenni dalle potenze europee. L'emergere del Trattato (o Patto) di Londra diede il via ad una modifica degli orientamenti politici internazionali.

La risoluta opposizione alla diplomazia segreta, e la sua denuncia quale metodo inaccettabile nelle relazioni internazionali, fu uno dei principali motivi ispiratori della stesura, da parte del presidente statunitense Wilson, nei celebri Quattordici punti, e, non a caso, il presidente Usa, a guerra vinta, si oppose risolutamente alla completa realizzazione delle rivendicazioni territoriali italiane basate sul Patto di Londra - mai firmato dagli Stati Uniti - non riconoscendo ad esso, come ad accordi similari con altri paesi, alcuna validità.

Con la dichiarazione nostra di guerra contro l’Austria (23/5/1915), Cadorna fu preso alla sprovvista. Non era stato nemmeno avvertito del nuovo corso diplomatico.

Pertanto, dovette, in tutta fretta, preparare un nuovo piano militare, tenendo conto della mutata alleanza. Avendo una profonda conoscenza dei luoghi e dei confini alpestri, atteso il lungo servizio all’Istituto geografico di Firenze, non disgiunto dalla conoscenza esercitata sul posto, essendo un ottimo camminatore, approntò un piano d’attacco sulla direttrice di Gorizia e di Trieste, per raggiungere vittoriosamente Vienna, e terminare l’invasione con la presa di Lubiana. Questo il nuovo studio cadorniano.

Le cose non andarono secondo questi piani.

V’è ancora da sottolineare come in Italia e, così in Francia, nel 1917 il cd pacifismo (o disfattismo) si era ingigantito. Il governo, allora debole di Boselli (anche per la sua veneranda età), e il costo della guerra, in termini umani e di materiali, era molto al di sopra delle nostre possibilità. I socialisti erano arroccati nella loro formula di compromesso (né aderire, né sabotare) e, comunque, non intendevano aderire alla guerra. La condotta della stessa da parte di Cadorna (strano a dirsi in un uomo religiosissimo, con una figlia, Carla, suora) era ispirata al massimo disinteresse per la vita dei sudditi/soldati, facendo assoluto riferimento alla più dura disciplina, atteso il suo plurimo vizio di esonerare dal comando, al minimo errore, colonnelli e generali.

Questo l’aveva imparato, a sue spese, il generale Roberto Brusati, fratello del primo aiutante del Re, gen. Ugo. Il giovane Brusati fu il primo comandante di truppa (1ª Armata) sollevato dall’incarico (1916, dopo la battaglia degli Altipiani o"Strafexpedition"), non senza polemiche, nella considerazione che l’aiutante del Re, ad una intervista pregressa del generalissimo alla stampa (9/3/1914), che dettava le sue condizioni per una condotta militare sul campo di battaglia esclusivamente in capo al Generale Comandante Capo di Stato Maggiore (Cadorna stesso), che in rebus militaribus, superiorem non recognoscens, salvo che in capo al Re, secondo lo Statuto in vigore, rimaneva la prerogativa regia d’essere formalmente comandante in capo delle Forze Armate (R. Esercito, R. Marina, R. Guardia di Finanza) aveva richiesto a Cadorna di smentire in modo categorico il contenuto di quella comunicazione giornalistica. Il generalissimo se ne guardò bene dallo smentire. Anzi. Se la prese con l’aiutante regio, affermando essere il suo punto di vista, quello dell’unicità ed indivisibilità del comando. E questo, si tenga presente, ancor prima d’essere formalmente nominato Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito.

Già da Colonnello, ma ancor prima, al comando del 10° Bersaglieri, si era messo precocemente in cattiva luce per la sua rigida interpretazione della disciplina militare e per il frequente ricorso a dure sanzioni costateanche richiami scritti dai superiori. 

Su Caporetto, era stata evidenziata l’eccessiva autonomia lasciata alla seconda Armata, la deficienza di riserve, di un piano difensivo, le divergenze ed incomprensioni tra Comandanti generali, le difficili condizioni materiali e morali delle nostre truppe, nonostante la presenza di encomiabili Cappellani Militari, ma in numero esiguo, ingiustamente accusate di non essersi battute.

Le perdite di quella notte furono altissime. Per non parlare dei danni agliarmamenti abbandonati: 3.200 cannoni,1.700 bombarde, oltre a depositi di viveri ed equipaggiamenti perduti, nonché il fatto che il Comando Supremo da Udine dovette arretrare in Veneto, lasciando abbondanti approvvigionamenti al nemico.

Il capovolgimento per noi avvenne alla fine d’ottobre del 1917: definito rotta di Caporetto: intesa come disfatta, non fu. Se mai, una cocente sconfitta militare: per colpa di chi?  Si disse del generale Luigi Capello, comandante della 2ª Armata, che contrariamente agli ordini, voleva mettere in pratica l’offensiva; del generale Pietro Badoglio, comandante l’artiglieria, che non diede gli ordini del contrattacco d’artiglieria, ed ultimo, del comandante supremo, Cadorna, capro espiatorio per tutti. L’errore suo, se di errore si può parlare, oggi, fu quello di rimanere per oltre due anni (958 giorni) unico Comandante sul campo di battaglia, svicolato anche dal re, ancorché gli riconobbe il formale comando delle Forze Armate.

Ciò fu evidente, dopo qualche tempo dall’inizio delle operazioni: i primi ordini cadorniani iniziavano con la formula: Comando Supremo Militare, presi gli ordini da S. Maestà il Re: poi, la formula sparì, lasciando il re arrabbiato e contrariato.

Controversa figura del monarca: dopo la tragedia del 28 giugno 1914 a Sarajevo, con l’uccisione del detestato (anche da Francesco Giuseppe) erede al trono austro – ungarico Francesco Ferdinando (d’Este) e della moglie morganatica Sofia Choteck, Vittorio Emanuele III pretese un doppio canale di trattative, sia con Francia e Gran Bretagna (Intesa) e sia con la Triplice Alleanza, Austria e Germania.

Egli, che mal soffriva l’alleanza nostra con gli austro-ungarici, voleva combattere al fianco di chi avrebbe offerto di più all’Italia in termini di territori. Non si trattava solo di Trieste, di Trento e Alto Adige; si voleva anche l’Istria, la Dalmaziacon tutte le isole.

E mentre l’Intesa promise al ministro Giorgio Sidney Sonnino (con lui era d’accordo, il presidente Antonio Salandra) larga parte dei territori richiesti, l’Austria tenne i tre negoziatori sulla corda: così si escogitò la formula della neutralità,  prevista dall’art. 4 della Triplice[15].

La dichiarazione di guerra alla Serbia (responsabile dell’attentato/assassinio, in cui furono coinvolti i servizi segreti serbi) fu certamente d’aggressione: il trattato prevedeva l’intervento dei membri, solo in caso difensivo.

Il re non tenne conto delle richieste dei molti irredenti che volevano guerra all’Austria; né dei moderati cattolici e del Vaticano (papa Benedetto XV, Giacomo Della Chiesa, grandissimo e oggi quasi dimenticato), i quali fecero di tutto per la neutralità, certa.

Il sovrano, Salandra e Sonnino non misero al corrente né il Parlamento (deputati e senatori erano in ferie) e nemmeno il governo dei loro intendimenti.

Solo il 26 aprile 1915 col patto segreto di Londra (Italia in guerra con l’Intesa) fu comunicato al parlamento e si votò lo stato di guerra: l’Austria, poco prima, concedeva all’Italia molto meno che non l’altra parte. Così si consumò quello, definito da alcuni, come primo colpo di stato del sovrano (il secondo si consumò, quasi trent’anni dopo, col 25 luglio).

Superato lo stupore e lo sconforto generati dalla sconfitta, si affermò che le cause del disastro andassero ricercate nei gravi errori  di strategia militare che la commissione d'inchiesta mise in luce a carico dei vari Cadorna, Porro, Capello, Badoglio e così via, senza accusarli direttamente, lasciando così il dilemma della Caporetto, cedimento politico o militare? Oggi, gli storici mettono l’accento sugli errori militari dei vari comandanti generali.

La verità vera su Caporetto, come spesso accade da noi (ma non solo) non c’è mai stata: la commissione parlamentare istituita dopo i fatti  militari, dal 24 ottobre al 9 novembre del 1917 accertò (cosa definita non grave) che nessuno dei tre principali protagonisti: Cadorna, Capello e Badoglio, quella notte era presente al comando. Cadorna in quel di Vicenza (ufficialmente per ispezionare il fronte dei Sette Comuni; in realtà, in compagnia di una signora). Stava rientrando in sede il generale Capello, ricoverato in ospedale per grave forma di nefrite e Badoglio, lontano dal posto di comando di Cosa. Il fatto non grave in sé, c’erano i vice comandanti (Capello era vice di Cadorna): poi, Cadorna da tempo aveva dato direttive particolari per la prossima primavera, nella convinzione, avvalorata da comportamenti nemici degli anni precedenti, che nel periodo invernale l’avversario non avrebbe attaccato: era successo nel 1914, nel '15 e nel '16.

Cadorna, nella ricostruzione (pro domo sua) su Caporetto, attribuì alle difficoltà del ripiegamento della 3ª Armata, oltre alla presenza di 350.000 militari sbandati per lo più della seconda armata, alla presenza di circa quattrocentomila profughi con masserizie e carriaggi ingombranti la sede stradale, affollando a dismisura i punti di passaggio sul Tagliamento.

Il 1917 fu l’anno, in definitiva, in cui i campi opposti consolidarono la decisione di arrivare alla vittoria finale. I tedeschi erano esaltati dal successo orientale contro i russi, e sottovalutando l’intervento americano, erano convinti di ripetere ad Occidente la vittoria finale. Gli alleati, fiduciosi dell’aiuto americano, erano convinti del trionfo, attesa la loro superiorità. Tutto ciò trovava riscontro nelle linee dei governi. In Germania Hindenburg e Ludendorff, i due famosi generali, esercitavano una incontrastata supremazia sui politici. In Gran Bretagna Lloyd  George accentrò il potere fino alla fine della guerra. In Francia, nel 1917 Clemenceau stabilì la propria dittatura. Infine Wilson, negli Stati Uniti, aveva in sé ampi poteri. La posta di tutti era: annientamento del nemico e ripartizione del mondo da parte dei vincitori. L’Italia, però, ebbe la peggio, sia per l’ostinata arroganza di V. E. Orlando che col Sonnino abbandonò il tavolo delle trattative, per poi, ritornarvi a firmare le clausole del trattato di Pace, e sia per l’intromissione del presidente Usa Wilson, che – non avendo avallato le promesse prima della nostra entrata in guerra – non riconobbe italiane le terre adriatiche, secondo la nostra aspettativa.

 

Appendice:

I primi ed ultimi Caduti:

Come un triste elenco di Eroi immolatisi per la Patria, ricordiamo, doverosamente, i primi caduti nel 1914: 2/8 per la Francia: Jacques Peugeot, 21enne ‒ per la Germania: Camille Mayer, 20 anni.

I primi nostri Caduti, all’inizio della guerra: il diciannovenne Riccardo Giusto, alpino udinese (classe 1895) colpito al capo sul Kolovrat (Drenchia) il 24 maggio 1915, decorato di medaglia d’Oro. 

Il 26 maggio cadeva sul monte Due Pizzi, nel Tarvisiano, l’alpino Benvenuto Menegon, classe 1893, dell’8° Rgt., decorato di medaglia d’Argento.

Il primo caduto pordenonese fu il fante del 41° Rgt., Luigi del Ben, classe 1894, caduto il 3 giugno (undici giorni dall’entrata in guerra), nell’ospedaletto da campo n. 27 nei pressi di Caporetto, per ferite in combattimento, forse al Monte Nero.

Gli ultimi nostri Caduti, alle 14.45, del 4/11/1918 (l’armistizio iniziava alle 15.00) furono i due Sottotenenti, Augusto Piersanti e Ambrogio Damiano, e i loro squadroni, circa duecentocinquanta uomini.

L’ultimo insignito dell’Ordine dei Cavalieri di Vittorio Veneto (1968) ‒ l’Ordine èin sonno dal 2008 ‒ il bersagliere Delfino Borroni è scomparso a Castano Primo (Mi) il 26 ottobre 2008 a 110 anni. L’hanno preceduto, il 12 marzo, in Francia, all’età di 107 anni, Lazare Ponticelli, piacentino di Bettola, naturalizzato francese, imprenditore, militare della legione straniera e alpino; l’ardito Pietro Micheletti, riminese, deceduto a 105 anni il 25/3/2005 e Francesco Domenico Chiarello, alpino crotonese, scomparso a 109 anni (27/6/2008). Questi i più longevi combattenti la prima guerra mondiale.

Il primo colpo italiano sparato vide il teatro del torrente Judrio, sul ponte di Brazzano, località Visinale di Cormòns.  La notte sul 24 maggio 1915, due militari della Regia Guardia di Finanza, Pietro Dell’Acqua, trevigiano e il sardo Costantino Carta, sentinelle del luogo, intorno alle 22.40 si accorsero di ombre minacciose avvicinantesi alla sponda sinistra del ponte trasportando ingenti carichi.

Subito ebbero chiaro che i guastatori austriaci erano intenzionati a distruggere il ponte: decisero di aprire il fuoco. La mattina dopo sul posto trovarono attrezzi da mina e dinamite. L'anno successivo furono decorati della medaglia di Bronzo al V.M. ciascuno con la seguente motivazione: « unitamente ad un compagno impediva con prontezza ed energia la distruzione di un ponte militare importante ».

Oggi, sul luogo v’è un monumento (inaugurato il 24/5/1937) con un bassorilievo bronzeo, opera del triestino Giovanni Mayer († 1943) raffigurante una donna (l’Italia) "che sfiora con la propria mano la spalla del finanziere, quasi a incoraggiare e guidare quel primo colpo di fucile" contro i genieri austriaci. (Cfr. M. Di Bartolomeo e F. Sancimino, Dal primo colpo all’ultima frontiera, 2014) .

Sulla stele, una frase in latino: Percutithincprimusdestruensfinibushostemius nostrum clamans Itala fata tonat. "Da qui parte il primo colpo di fucile, che caccia il nemico oltre il confine, reclamando a gran voce il nostro diritto, fa risuonare i destini italiani". (L’iscrizione latina fu dettata dal famoso lessicografo cremonese Ferruccio Calonghi, traduttore del vocabolario tedesco di Karl Ernst Georges).

*

SUSEGANA, dal 1917 terra occupata e di confine

Amena località adagiata sui colli trevigiani, Susegana, con i suoi due castelli, nella sinistra Piave, ha sempre rivaleggiato dal medioevo con la contermini Conegliano, in moltissimi campi, non ultimo quello enologico. Da allora, le contee di Collalto e di San Salvatore, contrariamente a Treviso e Conegliano, che dopo il Mille svilupparono il Comune con propri statuti, ebbero diversa organizzazione: dal 1312, con diploma imperiale (Arrigo VII), esercitarono poteri di governo, di magistratura e di dazi, quasi sovrani, prìncipi del sacro romano impero. La contea Collalto s’estendeva verso il quartiere del Piave in territori, oggi d’altri comuni, Refrontolo, Barbisano, Falzè e Sernaglia (quest’ultima, come anche Nervesa ed altre, aggiungerà la specificazione della Battaglia,a ricordo del conflitto mondiale).

Quella di san Salvatore dalla collina scendeva verso la pianura, con autorità amministrativa su Susegana e Colfosco, oggi frazione dello stesso comune e, ancora, Santa Lucia, attualmente a sé. Accanto ai poteri comitali per concessione papale, v’erano diritti di nomina dei parroci di alcune chiese, i diritti di juspatronatoperduranti da tempo, col pieno rispetto dell’autonomia feudale da parte di Venezia, che aveva insignito i Collalto del patriziato veneto risalente all’agosto del 1306.

Ai primi del Novecento del decorso secolo, la vocazione rurale del paese cooperava con l’antica famiglia dei Collalto: il novanta per cento e più delle famiglie (locali) lavoravano nelle aziende padronali anche nella bachicoltura a livello industriale. Ancor oggi, la nobile famiglia patrizia, a un tempo, è attiva nel settore agricolo, nell’allevamento bovino, equino, caseario: la sua cantina enologica è premiata con finissimi vini e spumanti di alto pregio.

Come soleva sottolineare il conte Rambaldo (intervista del 1988) la famiglia aveva due rami, quello suseganese e quello moravo. Quando mancava l’erede maschio a Susegana, soccorreva il principe moravo e viceversa. Così per secoli: anche Manzoni nel suo celebre romanzo parla del Rambaldo, condottiero, presente con le sue truppe all’assedio di Mantova (1630).

I primi gravi problemi s’addensarono con l’entrata dell’Italia in guerra, quella del ’15, secondo la definizione dei sardi. Il piccolo conte Rambaldo, di sette anni e il padre Manfredo V sono considerati nemici dagli italiani, perché austriaci: Rambaldo nasce a Teschendorf; il padre veste l’uniforme austriaca di ufficiale superiore; e “traditori italiani” nei paesi plurietnici dell’immenso impero austro–ungherese. Saranno ospiti dell’imperatore Franz Josef alla corte di Vienna.

Nell’ottobre 1917 Susegana, con le sue frazioni Collalto, Colfosco, Ponte della Priula fu invasa dall’avversario e, purtroppo, semidistrutta dalla nostra artiglieria, come già evidenziato.

Ponte della Priula, distrutti i ponti, era deserta, spettrale. I pochi abitanti rimasti sfollavano con gli oltre tremila suseganesi, oltre il 60% dei residenti, a Casalecchio di Reno, l’anticoCasaliculum, "piccolo borgo di case", ove trovò ospitalità anche il Commissario Prefettizio provvisorio di Susegana.

La gloriosa scuola “Bombardieri del Re”, dei robusti artiglieri specializzati, ospitati nel castello San Salvatore dei nobili Collalto, visitata nel 1916 dal Re e dal Duca Amedeo di Savoia, venne trasferita in quel di Modena, a Sassuolo[16].

La stampa nazionale diede ampio risalto alla tragedia veneto-friulana.

Su L'Avanti!, il 7 novembre, l’articolo riporta: «Come ogni cataclisma, palingenesi sociale, l’invasione nemica deve stringere più forte il vincolo fra le genti che vivono dalle Alpi alla Sicilia, oggi affratellate nel comune dolore e nel comune proposito di lottare e vincere»  (Giovanni Zibordi, storico socialista). Non fu così.

Il Governo proibì articoli sullo sfollamento della popolazione dalle zone di guerra, facendo intervenire la censura già dal 29/10. In particolare il Ministero dell’Interni intervenne non solo sugli editoriali o elzeviri, ma anche gli stelloncini col numero dei profughi presenti in ogni convoglio furono imbiancati.

Né la Reale Commissione d’inchiesta sull’occupazione delle province invase fornì mai una documentazione precisa sui movimenti delle popolazioni all’interno dei territori occupati della provincia di Venezia e di Treviso sulla linea di fuoco lungo il corso del Piave.

Sulla sinistra del fiume i comuni interessanti all’esodo furono Segusino, Valdobbiadene, Vidor, Moriago, Soligo, Sernaglia, Susegana, Vazzola, Cimadolmo, San Polo, Ormelle, Ponte di Piave e Salgareda nell’àmbito di Treviso; enella zona veneziana, Noventa, San Dona di Piave e Griosolera (oggi, Eraclea). Sulla riva destra, identico problema si pose per Pederobba, Cornuda, Crocetta del Montello, Giavera, Nervesa, Spresiano, Lovadina, Maserada, Zenson, Fossalta, Musile e Cavazuccherina (oggi, Jesolo), oltre a quelli vicentini dei contrafforti del Grappa e dell’Altopiano dei Sette Comuni, che avevano già ricevuto gli abitanti della zona di Asiago, interamente occupato, e quelli limitrofi di Arsiero, Forni, Velo d’Astico, nonché Schio e Bassano, per complessive centotrentamila persone circa. Questa povera gente fu sottoposta a peregrinazioni angosciose. Esemplare l’esodo di Segusino, piccolo comune tra Treviso e Belluno. L’intero paese, di circa tremila anime, dovette sfollare improvvisamente per lasciare il posto ai tedeschi acquartierati in trincee di fronte alle difese italiane. Inutili le supplice del parroco, del sindaco e dei molti contadini, che non volevano abbandonare i raccolti, le bestie, il foraggio, il vino. Nessuno poteva rimanere sulla linea del fuoco. Ci sono testimonianze drammatiche di quest’esperienza[17].

Tutta Susegana, con le frazioni, alla fine del 1918, nelle strutture e nei castelli fu quasi completamente diroccata, se non colpita dalle granate, devastata dagli incendi.

I decessi per causa di guerra, o conseguenze della guerra, non furono quasi mai registrati negli uffici competenti sia per il 1917 e per l’anno dopo, falcidiato dalla febbre spagnola.

Una grave conseguenza alla tragedia di cent’anni fa è ancor oggi sentita in modo esponenziale. La denatalità di quegli anni del guerrone è studiata e analizzata, con un risultato finale non favorevole.

Un secolo dopo, quell’Italia proletaria, nel senso letterale del termine, non esiste davvero più. Nel 1999 i nati nel nostro paese si sono dimezzati, in Veneto sono appena 41 mila, bambini stranieri compresi. Se in senso economico la recessione ci ha forse «proletarizzati», demograficamente siamo andati completamente a ritroso, guadagnando una denatalità che getta molte ombre sul futuro.

In Veneto le nascite nel durissimo 1918 furono esattamente la metà di quelle degli anni prebellici. Nei primi anni venti i matrimoni ripresero, come prima, quasi per una compensazione gioiosa e vitalistica. Tuttavia la compensazione non fu naturalmente possibile nell’alto numero di morti (militari ma anche civili, soprattutto in Veneto) e nell’enorme crollo delle nascite. La somma di questi due fenomeni lasciò una lunghissima eco condizionante al ribasso la natalità dei decenni seguenti, falcidiata dalla seconda guerra mondiale. Le conseguenze del «buco» demografico della «grande guerra», a cascata, arrivano a condizionare la demografia asfittica di oggi. Tutto questo dovrebbe sottolineare due aspetti. I fenomeni demografici – fecondità – ben difficilmente possono essere recuperati o corretti a posteriori. Inoltre, siamo privi di quel ricco capitale demografico – i «ragazzi del 99» – che ci permisero la vittoria. Oggi non servono più braccia numerose né nel lavoro né nelle guerre (ipertecnologiche), ma si rileva che la crescita zero attuale è anche una ipoteca sociale per il futuro prossimo.

Due episodi tragici di quell’inverno crudele del 1917 a Susegana.

Il primo, avvenuto in località Mercatelli Sant’Anna di Collalto.

L’11novembre, alcuni bimbi Tittonel, giocavano nell’aia della loro casa colonica. La fredda mattina li vide correre e divertirsi gioiosi, quando un aereo nemico lasciò cadere un bomba, che deflagrando tragicamente colpì a morte cinque dei piccoli. Una soltanto risulterà ferita, Pasqua. I loro nomi: Angelina, Antonietta, Lauretta, Giovanni e Bortolo.

La signora Pasqua Tittonel insignita a Moriago della Battaglia (5/12/2004) della medaglia d’Oro, insieme con Cirillo Morgan, un altro miracolato della grande guerra, scomparve, novantenne, il quattro settembre dell’anno successivo.

Il tragico episodio è ricordato, nello stesso luogo, con una targa bronzea commemorativa a Villa Jacurin occasione dell’85° anniversario (11/11/2002).

“Giganteggia una roccia carsica con espressivo altorilievo opera dello scultore Pietro Stefan: Col bene ereditario della memoria si costruisce un futuro credibile.

Il secondo episodio, in località Casoni, Cascina Lovera.

Il mattino del 30/12/1917, al rientro da una missione su Aviano, per atterrare a Padova, veniva abbattuto,precipitando, dalla contraerea nemica, il bombardiere Caproni CA 3 con i piloti a bordo e i due mitraglieri.

Con una toccante solenne cerimonia militare (16/4/2005) l’Amministrazione Comunale di Susegana in uno con la sezione trevigiana dell’Arma Aeronautica, ha scoperto il monumento, dedicato ai quattro eroi Caduti, nel punto dell’impatto, donandolo alla custodia della comunità.

Nell’occasione la locale Consulta delle Ass. Combattentistiche e d’Arma, presieduta dal giudice, comm. avv. Renato Borsotti, ha condiviso con la Municipalità la pubblicazione di un volumetto, Memoria ed Eroismo, 2005 (R.B.)

L’autore del monumento è stato l’arch. Renato Fornaciari di Rovereto.

I Caduti: Cap. Maurizio Pagliano e Ten. Luigi Gori, già Piloti di Gabriele d’Annunzio e i soldati, Arrigo Andri e Giacomo Cagli.

Il monumento scaturisce dagli avvenimenti e dalla forma del velivolo. R.B. scrisse: Il segno minimale della fusoliera bruciata che impatta il terreno è sacrificio…quali braccia elevate al cielo [18].



[1]La minoranza fanatica dei Futuristi, dei vociani, degli irredentisti (ex c., Cesare Battisti e l’allievo suo Fabio Filzi, Nazario Sauro, Damiano Chiesa), degli intellettuali, primo il d’Annunzio, che sarà eroe di guerra, con i triestini Scipio Slataper, Carlo e Giani Stuparich, e gli autonomisti, Michele Maylander, Antonio Grossich, presidente del consiglio nazionale italiano, Nevio Skull, Giuseppe Sincich, Mario Blasich, Riccardo Gigante, eroe e luogotenente dannunziano a Fiume, e tanti altri ancora, come l’interventista Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini, alla fine, ebbero la meglio. La minoranza facinorosa sconfisse la neutralità.

[2] Dopo Caporetto, famosa fu la dichiarazione del gen. Cadorna dettata alle agenzie straniere per la pubblicazione sui quotidiani del 29/10; mentre, per la diffusione in Italia, venne trasmessa al governo centrale.

«La mancata resistenza di reparti della 2ª Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-ungariche di rompere la nostra sinistra sulla fronte giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti ad impedire all’avversario di penetrare nel sacro suolo della Patria.

La nostra linea si ripiega secondo il piano stabilito. I magazzini e i depositi dei paesi sgombrati sono stati distrutti. Il valore dimostrato dai nostri soldati  in tante memorabili battaglie combattute e vinte durante due anni e mezzo di guerra, dà affidamento al comando supremo che anche questa volta l’esercito, al quale sono affidati l’onore e la salvezza del Paese, saprà compiere il suo dovere.» 

Ciò fece scalpore tanto che Paolo Boselli, presidente del Consiglio, chiese al Comando generale una smentita della prima parte del comunicato. Non fu possibile, dato che i giornali erano già in vendita. Le seconde edizioni uscirono senza accenni né alla viltà né alla ignominia. Intervenne il ministro della Guerra, gen. Giardino, il quale smorzò i toni, parlando di sfiducia nella gerarchia, d’incapacità di comando, di malgoverno degli uomini, tale da aver provocato la sconfitta, spostando l’accento sui comandanti, dando una più razionale motivazione sui combattenti. Anche gli stessi nemici smentirono l’accusa di viltà mossa dai generali ai nostri soldati: cfr. gen. SvetozarBoroević von Bojna, comandante austriaco, parlò di un rimprovero ingiusto e inesatto; E. Rommel nel libro Fanterie all’attacco scrisse “Poche settimane più tardi, i fucilieri di montagna ebbero di fronte nella zona del Grappa truppe italiane che si batterono benissimo, e seppero, sotto ogni punto di vista, compiere il loro dovere. Là non poterono essere conseguiti successi come quelli di Tolmino”. Ancora, il gen. Konrad Krafft von Dellmensingen della 14ª Armata austro-ungarica, Capo di SM, scrisse:

Pubblicato da piave in data Lunedì, 24 agosto 2015
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