di Renzo Pavanello. Il fascismo e il nazismo, con retorica prosopopea, enfatizzavano la sacralità territoriale degli “stati nazionali”. Ogni “razza” aveva la sua terra, quella nella quale il popolo si sarebbe venuto formando ed evolvendo. E questo valeva per la “razza italiana”, per quella “tedesca”, mentre non valeva affatto per l’”inferiore razza ebraica”.
Razze. C’era e c’è ancora oggi molta confusione in merito. A volte strumentalmente voluta. Altre, legata alla diffusa presunzione da parte di molti, di poter sopperire con la supponenza a una specifica mancanza di conoscenza. E’ perciò che termini per nulla sinonimi fra loro vengono usati come se lo fossero: razza, etnia, popolo, gente ma anche patria, nazione, stato, paese. E’ la misera arte degli azzeccagarbugli e di quanti antepongano la politica alla cultura. Come se quest’ultima non ne fosse l’indispensabile supporto.
Pertanto continuiamo a guardare con rispetto ai confini di quegli stati che si sono venuti formando dopo secoli e secoli di guerre fratricide, malgrado che dopo ogni guerra, gli stessi venissero e vengano modificati a tutto vantaggio dei vincitori. L’impulso remoto è sempre lo stesso, la predazione, per esercitare la quale era necessario essere sempre più forti economicamente e minacciosi militarmente, prigionieri di una logica blasfema quanto autodistruttiva.
Da qualche tempo però, il seme di una certa inversione di tendenza, di una certa maggiore coscienza democratica, ha portato allo sgretolamento di imperi rocciosi come quello sovietico e allo sfaldamento di stati tenuti insieme da poteri totalitaristici come la ex Jugoslavia. Fra questi, la Slovenia dopo una breve guerra d’indipendenza, ha potuto autodeterminarsi e la Cecoslovacchia dividersi in due stati sovrani, consensualmente e con reciproco beneficio. La Germania invece, divisa dai vincitori dell’ultimo conflitto mondiale, in due stati ideologicamente contrapposti, ha ritrovato sé stessa nella riunificazione.
L’Italia era stata unificata dalla smania di grandezza di quel nanostato francese che era Casa Savoia, con le cosiddette “guerre d’indipendenza” che, in realtà, erano soltanto guerre di conquista, di espansione territoriale. Un evento storico conseguito non per espressa volontà di popoli alloglotti e, in alcuni casi, anche all’oscuro della reciproca esistenza, ma dalla feroce ingordigia del suddetto “potere”. Di un “potere” che – la ratio è sempre quella - necessitava di quanti più morti possibile (morti di serie “A”) per poter dettare con forza le proprie condizioni al tavolo di pace e che su quei morti, ancora oggi pretenderebbe di fondare la ragione stessa della sua esistenza.
Per i caduti nel campo avverso a quello dell’unità d’Italia invece, (morti di serie “B”), essendo estinto il potere che li aveva mandati a combattere e morire, nessuna commemorazione, nessuna gloria eterna. Dimenticati da tutti. Anche dai loro diretti discendenti che ora sventolano il tricolore e inneggiano alla cosiddetta “unità d’Italia”. Di quella stessa Italia che li ha degradati al rango di “briganti da strada”.
Indubbiamente è necessario guardare avanti, verso il futuro ma senza dimenticare e senza oscurare la storia o adeguarla opportunisticamente ai propri interessi del momento. Certa retorica “patriottarda” ne è l’espressione più tristemente emblematica.
Passando dalla storia alla cronaca ovvero dalla cultura alla politica, chiediamoci quale sia la maturità democratica del potere che governa uno stato “raccogliticcio” come quello italiano. Un’idea ce la potremmo fare, semplicemente considerando certe prese di posizione del suo massimo esponente, il Presidente della Repubblica. Questi, già nel discorso d’investitura lanciava l’ anatema “Non saranno tollerati conati secessionistici”. Più recentemente invece, ha usato espressioni esortative quali “Uniti ce la potremo fare” e fatto ricorso a dogmi di fede quali “L’Italia è una e indivisibile”! Ovviamente finché durerà, poi, schiacciata dall’aumento esponenziale del suo enorme debito pubblico, “Morirà Sansone con tutti i Filistei”!
“Uomo del mio tempo, sei ancora quello delle caverne”. Arrivato al “potere”, sarai indotto da una primordiale e irrefrenabile pulsione, a perpetuarlo. E’ perciò che il “potere” non si rivolterà mai contro sé stesso. Uno squallido esempio ne è la stessa Italia, paese tragicomico e falsamente democratico, quando riconosce ai popoli della terra il diritto all’autodeterminazione, tranne a quelli che disgraziatamente erano caduti nella rete della sua giurisdizione politica. A questi nega spudoratamente identità e status perché è con la coercizione e l’oscurantismo che il “potere italiano” ha sempre inteso “fare” gli italiani!
Pertanto sono i popoli che con una riscossa civile e morale, dovrebbero riappropriarsi della loro identità e di quella coscienza di sé e dei propri diritti che soltanto l’informazione, la conoscenza può dare. “Uomini siate, non pecore matte”. In caso contrario, la storia lo dimostra da sempre, sopraffazione, sfruttamento, asservimento, guerra e quant’altro, continueranno a funestare il mondo.
E’ assiomatico che l’interesse del popolo debba antecedere quello della minoranza che lo dovrebbe rappresentare. Quindi ipotizzare e concretizzare una realtà alternativa, in cui il “potere” non abbia la faccia truce del nemico, dell’oppressore è possibile e certamente auspicabile. Considerando inoltre che la massima espressione della democrazia non è quella rappresentativa ma quella diretta, quella in cui il popolo abbia la possibilità di esprimersi a mezzo referendum (abrogativo, propositivo e privo di quel capestro del “quorum”), sarebbe opportuno perseguirla con determinazione. Uno strumento non adeguato a tutte le situazioni ma certamente capace di eliminare dallo scenario politico una buona parte del fuorviante interesse personale di quanti si fanno eleggere, per rappresentare più sé stessi che i loro elettori. Inoltre i diritto all’autodeterminazione è un diritto inalienabile dei popoli. Potersi costituire in realtà socio-politiche a “geometria variabile”, capaci di rinunciare spontaneamente ai “sacri confini”, nel nome di una più costruttiva collaborazione con altre realtà similari, non è sterile utopia.
Libertà di scelta delle modalità politiche più confacenti alle singole necessità e alle singole aspettative. Libertà di federazione con altre “realtà” affini per cultura e le cui economie siano compatibili. Libertà anche di distacco indolore, nel caso in cui quella certa federazione non sia più confacente alle originali aspettative. Eliminato il “cavernicolo” fattore coercizione (“L’Italia è una e indivisibile”!), causa di incomprensioni, di invidie, di gelosie e di odi incrociati fra quanti si sentano costretti a una sterile e, peggio ancora, penalizzante convivenza, ciascun soggetto federato sarebbe indotto ad operare nell’interesse comune, conscio del fatto che in quello risiede anche l’interesse soggettivo.
Un esempio significativo, anche se ancora molto rudimentale, potrebbe essere la macro regione europea di Alpe-Adria che cerca di concretizzare una collaborazione fattiva tra la Carinzia (in cui fin dalle elementari gli alunni studiano, oltre al tedesco, anche lo sloveno e l’italiano), la Slovenia, il Friuli V.G. e il Veneto.
Il dibattito è aperto.
Ringrazio dell’attenzione e saluto cordialmente.
Renzo Pavanello
cittadino italiano di etnia veneta.