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Fatti di storia Prima guerra mondiale. Caporetto sconfitta militare (24/10/1917). 2^ parte.

Del dott. Renato Borsotti. Le donne nella Grande Guerra: le crocerossine; postriboli militari o case del té; Ernest Hemigway militare sul fronte italiano.



LE DONNE NELLA GRANDE GUERRA: LE CROCEROSSINE 

La grande guerra non fu appannaggio soltanto maschile. Vale anche, se non soprattutto, per le donne. Di solito la guerra è considerata una esclusività di maschi. Ma non la Grande guerra. Le donne, in quegli anni, dalle più diverse professioni o anche da casalinghe, si prodigarono allo spasmo per portare ai combattenti delle prime linee un qualche aiuto, sollievo o conforto. Sul fronte ci furono crocerossine, portatrici carniche, spie, giornaliste, prostitute di ogni genere, persino soldatesse in incognito. Le donne rimaste a casa dimostrarono di saper fare i lavori, che prima svolgevano gli uomini. Tenere il ritmo alla catena di montaggio, saldare il metallo, caricare i camion, e anche diventare provette elettriciste, idrauliche, maniscalche, autiste, commesse, giornalaie, cameriere. Operaie, spazzine, tranviere, barbiere, postine, impiegate amministrative, direttrici d'orchestra, boscaiole.In pochi mesi, le donne si trovarono proiettate nel mondo lavorativo stravolgendo, loro malgrado, una realtà da secoli immutata. Frequentare l’università, scioperare, reclamare i propri diritti.

Su un quotidiano dell’epoca troviamo scritto “il mondo alla rovescia”.

Ma l’esperienza delle crocerossine nella Grande Guerra è stata anche una via all'emancipazione femminile.

La Prima guerra mondiale dimostrò all’Europa che la donna era pronta a uscire di casa per lavorare in qualsiasi rango, rendersi indipendente, costruirsi la propria vita,  contribuendo al destino della nazione. Fu definito il matronato di scopo, ante litteram.

Forse si deve anche a questo imponente fenomeno storico, oltre che all’amore per l’Italia e per la propria famiglia, se la memoria della Grande guerra è custodita soprattutto dalle donne. Per questo i capitoli di guerra alternano storie di uomini e di donne[1].

Ricordiamo le Crocerossine, donne straordinarie per volontà, dedizione e sacrificio, lungo tutto l’arca del conflitto.

Il loro Corpo, dettoInfermiere volontarie della CRI, oggi, è corpo ausiliario delle FF.AA[2].

Era il 1908 quando, su iniziativa della Regina Margherita di Savoia, fu istituito a Roma, presso l’ospedale militare principale del Celio, l’organismo, componente tutta al femminile della Croce Rossa: esso proseguiva, in forma più organizzata, le attività socio-sanitarie delle Dame della Croce Rossa d’inizio Ottocento del secolo scorso.

Le prime Infermiere (Sorelle) diplomate, un migliaio circa, uscirono dalla scuola di formazione, proprio l’anno di fondazione.

Molte si dedicarono ai soccorsi, dopo lo spaventoso terremoto calabro-messinese: travolse metà della popolazione del centro siculo e un terzo di quella calabrese(ore 5.20 a.m.del 28 dicembre 1908).

Il primo conflitto, cui parteciparono, fu la guerra italo-turca del 1911. La duchessa Elena e circa sessanta sue consorelle furono coinvolte nei soccorsi alla nave Menfi.

Nel conflitto del 1915-18, oltre 10.000 infermiere volontarie risultarono presenti nei 204 ospedali da campo della nostra Croce Rossa, gestendo un totale di 30.000 posti letto[3].

Non è vero che quella guerra fu soltanto una guerra di trincea, una guerra d’alta quota, una guerra uomo contro uomo, uomo contro natura. Fu una guerra anche di donne, che con la loro presenza, abnegazione e istinto materno, riuscirono ad umanizzare il volto crudele della guerra.

Del Corpo delle Crocerossine emerge una struttura di vera e propria unità combattente, con un comando ed una propria organizzazione.

La regina Elena affidò il ruolo di Ispettrice nazionale del Corpo delle infermiere volontarie, nell’aprile del 1915, alla Duchessa Elena d’Aosta, moglie di Emanuele Filiberto, duca d’Aosta, comandante la 3ª Armata.

La scelta fu indovinata poiché la duchessa aveva già militato nella guerra libica.

Equiparata al grado di generale[4], ella non trovò nella organizzazione della Croce Rossa la professionale efficienza necessaria alla dura realtà della guerra. Formidabile organizzatrice, intraprese così un’azione di ristrutturazione a tappeto fra gli ospedali gestiti dall’Associazione. Le 4000 infermiere volontarie del ’15 arrivarono a 6000 l’anno successivo e a fine conflitto se ne contarono diecimila. Esse agirono al fronte, nelle immediate retrovie, sui treni ospedale e negli ospedali.

Un’organizzazione caratterizzata da una ferrea disciplina: essendo donne venivano più controllate e censurate degli uomini. In più vigeva una altrettanto rigida autodisciplina per essere ammesse tra i combattenti.

Come tutte le unità combattenti ebbe le sue perdite: la più famosa delle crocerossine trovò degna sepoltura al Sacrario di Redipuglia. I valorosi della Terza Armata la vollero, unica donna, con i loro morti.

Sulla stele, a ricordo, è scritto: “Crocerossina Margherita Parodi di anni 21 – Caduta di Guerra” [5]e l’epitaffio significativo delle sue virtù:

“A noi tra bende, fosti di carità ancella.

Morte ti colse: resta con noi sorella”.

Non fu l’unica. A guerra finita se ne contarono 44 (per ferite o causa di servizio) e tre prigioniere. Ma quella delle crocerossine non è solo una storia di guerra, ma è anche una piccola, grande storia di donne. Una storia divisatra contraddizioni e ambiguità, una storia di emancipazione femminile, una storia che non si esaurisce nel 1918.

Durante i primi anni del nuovo secolo si trascinarono antichi retaggi, contraddizioni ed ambiguità che la guerra, almeno in parte, spazzò via.

Pochi esempi: le crocerossine coniugate, per andare al fronte e forse sacrificare la vita, dovevano chiedere l’autorizzazione al marito. Così le infermiere senza vincoli familiari o almeno senza figli, apparivano  preferibili. Non contiamo, poi, quelle, che, sotto la spinta ideologica dell’amor patrio, scappavano di casa non avendo ottenuto il beneplacito genitoriale. Ancora. Poiché la maggior parte appartenevano alle classi sociali più elevate, fu fatto loro divieto di occuparsi degli ufficiali.Alle volontarie venivano affidati i soldati semplici di estrazione popolare.

Gli eroi, o meglio i protagonisti della Grande guerra, sono i nostri nonni. È la grande massa dei corpi sacrificati alle atrocità della guerra industriale. Sono i feriti, i mutilati, gli esseri rimasti senza volto, talora non in senso metaforico: lesgueulescassées, le facce deformate dalle schegge e dalle esplosioni. Raccontare la guerra con gli occhi di chi l’ha vissuta è una discesa agli inferi. I diari, le lettere, le cartoline restituiscono una sofferenza che oggi non riusciamo neanche a immaginare. Gli assalti inutili. Le decimazioni. I fanti divenuti folli. Rileggere le loro cartelle cliniche è terrificante. In manicomio c’era un soldato che passava le giornate a contare.Contare i morti: era l’incarico che aveva ricevuto in trincea. Altri chiamavano di continuo la mamma o il papà, vedevano austriaci dappertutto, piangevano nel timore di essere fucilati.

In questa frase della crocerossina Annie Vilanti “Una ragazza, chiamata a curare i feriti nel corpo e nell’anima non può vivere nella bella e puerile ignoranza di una volta...” troviamo tutta la spinta che permise al volontariato femminile, quando a guerra finita quasi tutte le donne rientrarono a casa lasciando il posto ai reduci dal fronte, di non tornare troppo indietro.

Tanto è vero che pretesero ed ottennero l’istituzione di scuole professionali da cui uscirono le prime infermiere specializzate.

Un passo importante e basilare per cancellare il preconcetto secolare “Il medico (uomo) si occupa delle ferite e l’infermiera (donna) dei feriti” ed aprire le porte della medicina e della chirurgia anche alle donne: fino allora erano rimaste lontane da questa branca, feudo indiscusso della categoria maschile.

Una storia che continua ancora, nella considerazione che le troveremo nel gelo delle steppe russe o sotto il sole rovente del deserto africano durante la Seconda Guerra Mondiale.

Le abbiamo trovate e le troviamo ancora oggi, in tutte le terre devastate dalla natura o dagli uomini.

La dura e drammatica esperienza della Prima Guerra Mondiale ha rafforzato la “piccola” storia del Corpo delle Infermiere Volontarie della C.R.I. che da allora ha accompagnato la “grande” Storia dell’Italia.

Dovunque e comunque, Crocerossine, infermiere volontarie.

È nell’impegno sociale delle donne sui campi di battaglia dell’Ottocento, che si rintracciano le prime basi di quello che, con il conflitto di cui si ricorda il centenario, diverrà un fenomeno universalmente riconosciuto con l’appellativo di Crocerossine.

Donne come Cristina Trivulzio di Belgioioso, principessa, che si prodigò per l’assistenza ai feriti nei combattimenti per la difesa della Repubblica Romana nel 1849.

Come Florence Nightingale, che applicò la sua capacità scientifica ed organizzativa alla cura dei feriti nella guerra di Crimea (1855), rivoluzionando così l’assistenza sanitaria militare o, ancora, come le donne lombarde, accorse spontaneamente sul campo di battaglia di Solferino nel giugno del 1859, portando aiuto e conforto ai tanti soldati bisognosi di cure.

La storia delle Infermiere Volontarie è strettamente legata alla storia d’Italia. Già al termine del primo corso, nel 1908, le neo diplomate Volontarie italiane, ebbero il loro “battesimo del fuoco” accorrendo, prima in aiuto delle vittime del terremoto calabro-siculo, seguito a breve distanza da altri importanti interventi come durante la guerra di Libia nel 1912 ed il terremoto del Vulture del 1914. La guerra del 1915-1918 sarà il vero banco di prova del Corpo delle Infermiere Volontarie, prime donne sul fronte di una guerra. Durante quei terribili anni, la duchessa Elèna D’Orleans Aosta, prima Ispettrice delle Infermiere Volontarie, si adoperò per adeguare il numero delle infermiere alle esigenze del conflitto perfezionandone la loro preparazione, dotandole di un’uniforme e coniando per loro l’appellativo di “Sorelle”. Nonostante le perdite causate dal conflitto, il Corpo delle Infermiere Volontarie diede un enorme contributo anche durante la Seconda Guerra Mondiale trovando impiego nei diversi fronti sia sulla penisola che in Jugoslavia, in Africa e in Russia, in molti casi svolto sulle navi bianche e sui treni-ospedale.

 

POSTRIBOLI MILITARI  o case da tè

Nei primi mesi della Grande Guerra, dietro le linee di combattimento, spuntarono postriboli militari, spesso su carovane che avanzavano o retrocedevano a seconda dei vari spostamenti delle truppe. La donna non è solo custode della patria e della casa, né semplicemente angelo che dà sollievo e conforto, ma anche oggetto di desiderio. Un’altra figura ricorrente nell’esperienza femminile durante la Grande Guerra è quella della prostituta, costante presenza che accompagna il militare nella concreta e durissima quotidianità bellica. 

Il comando supremo generale dava disposizioni ai comandi inferiori di allestire nelle retrovie i casini o postriboli militari, affinché i soldati nel turno di riposo, prima del ritorno al combattimento, potessero godere di un momento di riposo e di gioia tra le braccia di una donna[6].

Le condizioni di questi allestimenti erano deplorevoli sotto ogni punto di vista. Le donne, anche ragazze, non avevano né visite mediche, né preservativi o altro ausilio per proteggersi. Materassi erano per lo più pagliericci sudici e maleodoranti.

I soldati per ore in fila indiana aspettavano il turno sotto il sole o la pioggia, senza protestare, soltanto perché erano in ansia per l’incontro troppe volte atteso.

Le donne venivano sottoposte ad orari usurari anche per oltre le dodici ore. Potevano contare l’ammontare dei rapporti anche a 120 al dì. E non c’erano i turni quindicinali, come nelle case di tolleranza cittadine.

Si deve fare una doverosa distinzione. Le cd case da tè o casini destinati alla truppa erano di rango inferiore. Nelle retrovie, per ufficiali vi erano anche alberghi che mettevano a disposizione le loro camere. Anche i generali potevano godere di un trattamento particolare.

Ciò che provavano anche i nostri soldati in quel conflitto è stato scritto nella canzone Lili Marlen, il cui successo si ebbe durante la seconda guerra mondiale.

In questa canzone, dal ritmo triste e nostalgico, cantata da soldati di tutti e due i fronti, composta da Hans Leip(1915), è messo in luce come il soldato trovasse rifugio nelle braccia di una donna, anche se prostituta. Il soldato, come molti altri, è disorientato, non riesce a rendersi conto della realtà che lo circonda, vuole avere un momento di affetto, di calore: considera una semplice prostituta come la propria innamorata. Arriva a sopportare le atrocità della guerra solo per rivedere la sua “ragazza”, identificata  in Lili Marlene.Il soldato è così invaghito di Lili che ogni volta, quandole dà l’addio ritorna a sentirsi solo e abbandonato. Lili è una prostituta che può anche legarsi  ad un nuovo soldato e piangere per la sua partenza. Il giorno dopo, tornerà a sorridere adaltro cliente. La Chiesa, invece, con l’energica attività del Vescovo castrense, mons. Lorenzo Angelo Bartolomasi, diramata attraverso il dinamismo pragmatico di don Giovanni Minozzi, capitano, e don Giovanni Semeria, cappellani militari, costituisce le Case del Soldato, ove i militari nelle retrovie possono godere di riposo con biblioteche, spacci, attività da oratorio. In molti paesi lungo il fronte, oltre agli ospedali, alle baracche per il riposo dei soldati e ai magazzini militari, sorsero le Case del Soldato alla fronte, o centri ricreativi: i cappellani militari si convinsero che i soldati non potevano riposarsi nelle retrovie concedendosi all'alcool e ai piaceri della carne, ma frequentando piuttosto centri di ricreazione, ove ascoltare musica, assistere a spettacoli teatrali, leggere giornali o libri, frequentare corsi di scrittura (la maggior parte dei militari semplici e graduati erano analfabeti)escrivere lettere ai propri cari. Mantenere il contatto tra famiglie e soldati illetterati al fronte erano i cappellani militari o ufficiali inferiori delle compagnie, mancando i sacerdoti.

Le Case, sorte in Cadore nel 1916, nella 4ª Armata, si moltiplicarono in tutte le Armate dal 1917, cancellate, però, la maggior parte, dopo Caporetto. Riorganizzate alla fine dell’anno, nel 1918 si propagarono a dismisura[7].

Questa iniziativa venne vista positivamente dai comandi militari in quanto nelle Case del Soldato si poteva accrescere la fiducia nei combattenti e far assimilare in maniera indiretta valori e idee. Nacquero così numerose iniziative rivolti ai soldati che cercavano, con leggerezza e senza annoiare, di proporre messaggi chiaramente patriottici[8].

È stato scritto che, nonostante il successo delle Case del soldato, molti militari, anche di grado elevato, continuavano a frequentare le famose case da tè.

Gli stupri: migliaia di donne nel Friuli e nel Veneto al di là del Piave furono violentate, nell’anno in cui un milione di italiani rimase in balia dell’esercito asburgico (1917).

Nove mesi dopo Caporetto cominciarono a nascere i primi bambini; e non si sapeva dove metterli. Gli orfanotrofi li rifiutavano, perché non erano orfani. Ma i maschi di casa non volevano tenere «il piccolo tedesco». Si dovette aprire un istituto, a Portogruaro, per i figli della guerra. Cinquantanove donne convinsero i mariti a riprendere il piccolo: «Lo alleveremo come se fosse nostro». Molti di più furono i neonati che morirono per mancanza di latte. Centinaia di madri andavano, di nascosto dagli uomini, all’istituto, per nutrire o rivedere i figli; fino a quando il direttore non scrisse una lettera straziante: «Non venite più, perché i bambini vogliono venire via con le mamme.Noi cosa diciamo loro?». Poi ci sono le storie a lieto fine. Che, paradossalmente, sono la maggioranza.

 

*

Ernest Hemingway militare sul fronte italiano

Chi non ha letto o visto l’“Addio alle armi” di Ernest Hemingway? Il tenente americano, disertore per amore, vuole raggiungere l’infermiera inglese, di cui è pazzamente innamorato, sullo sfondo della sconfitta di Caporetto.

Vista la ferrea disciplina e i divieti di cui sopra, questa storia appartiene forse più alla letteratura romanzesca e fervida immaginazione dello scrittore americano, più che alla realtà del conflitto.

Per le nostre crocerossine, soprattutto quelle impegnate in zona di guerra, c’erano soldati urlanti da medicare, turni massacranti, stress psicologico e granate che lasciavano poco spazio alle relazioni sentimentali e a qualsiasi tipo di svago o passatempo.

A Fossalta di Piave, nel 1918, il diciottenne Ernest Hemingway, autiere della Croce Rossa americana, venne ferito mentre prestava soccorso ad alcuni militari italiani. La sua degenza in ospedale e la sua esperienza sul Piave diedero vita all’opera «Addio alle armi» e una stele, lungo l’argine del Piave, ricorda ancora oggi il luogo del suo ferimento[9].

Escluso dai reparti combattenti, a causa di un difetto alla vista, Ernest Hemingway (21/7/1899) venne arruolato nei servizi di autoambulanza come autista dell'ARC (American Red Cross, la sezione Usa della Croce Rossa) destinati al fronte italiano nella città di Schio (ai piedi del Pasubio), e dopo due settimane di addestramento e dieci giorni trascorsi a New York (23/5/1918) si imbarcò sulla Chicago diretta a  Bordeaux, città nella quale sbarcò il 29 maggio.

Il 31 maggio giunse a Parigi ed ebbe modo, girando per la città con l'amico TedBrumback, di vedere il disastro provocato nei vari quartieri dal cannone tedesco chiamato Parisgeschütz (cannone di Parigi, cannone ferroviario, spesso erroneamente confuso con la Grande Berta). Proseguì in treno per Milano, dove rimase per alcuni giorni prestando opera di soccorso e pattugliamento (nelle campagne circostanti, a Bollate, era saltata in aria una fabbrica di munizioni e molte erano state le vittime tra le operaie). In seguito fu inviato a Vicenza con TedBrumback e Bill Horne, assegnato alla Sezione IV della Croce Rossa Internazionale americana, presso il Lanificio Cazzola (Schio), nella quale tornò anche nel primo dopoguerra.

Malgrado il 15 giugno si fosse scatenata sul fronte italiano la battaglia del solstizio, alla Sezione IV la situazione era tranquilla e per alcune settimane Hemingway alternò il lavoro di soccorso con bagni nel torrente e partite di pallone con gli amici. Iniziò anche a collaborare ad un giornale intitolato Ciao con articoli scritti sotto forma di epistola e conobbe, recandosi in un paese vicino alla Sezione, John DosPassos (1896). Il giovane desiderava però assistere alla guerra da vicino e così fece domanda per essere trasferito. Fu mandato sulla riva del basso Piave, nelle vicinanze di Fossalta: assistente di trincea.

Aveva il compito di distribuire generi di conforto ai soldati, recandosi quotidianamente alle prime linee in bicicletta. Durante la notte tra l'8 e il 9 luglio, nel pieno delle sue mansioni, venne colpito dalle schegge dell'esplosione di una bombarda austriaca pesanteMinenwerfer (mortai a corta gittata contro fili spinati e fortificazioni). Cercò di mettere in salvo i feriti ma, mentre stava recandosi al Comando con un ferito in spalla, fu colpito alla gamba destra da proiettili di mitragliatrice, penetrati nel piede e in una rotula.

Dopo le prime cure, ricevute presso l'Ospedale da campo della Repubblica di San Marino, il 15 luglio fu trasportato su un treno ospedale e il 17 luglio consegnato all'Ospedale della Croce Rossa americana a Milano, dove fu operato. Lì rimase tre mesi, durante i quali si innamorò, ricambiato, di un'infermiera statunitense di origine tedesca, Agnes von Kurowsky, che non manterrà la promessa di sposarlo: considerava il rapporto una relazione giovanile, fugace e platonica. Una volta dimesso e decorato di Medaglia d’Argento V.M. italiana, ritornò al fronte a Bassano del Grappa.

Smobilitato l'esercito (21/1/1919), il soldato Ernest ritornò a Oak Park, accolto come un eroe.

*



[1]Testimonianze di donne si leggono in M. Bernardi, op.cit, Mursia, 1989, Cunegonda Bozzetto in Roman (p.36,ss.), Elisa Fagnol (p.46 ss),Clelia Jäger Verri (p.56-57) Giovanna Bellese Forniz (p.65), e tante altre.

[2]Una prima unità formale e strutturale risale al 1888, patrocinante Elena d’Aosta, nata Hélène Louise Henriette d'Orléans, londinese, poi duchessa italiana, sposa di Emanuele Filiberto di Savoia- Aosta, figlio di Amedeo e di Maria Vittoria dal Pozzo della Cisterna (25/6/1895). 

[3]Con la Legge 25 giugno 1985 n° 342, il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, concesse l'uso della bandiera nazionale al Corpo delle infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana, per gli alti meriti civili e militari resi alla nazione.

Il 2008 non è stato solo il novantesimo anniversario della fine della guerra, ma anche il centenario della Fondazione delle Crocerossine.

Attualmente il Corpo Infermiere Volontarie CRI a Roma, nella sede del Comitato Centrale, è presieduto  dalla Sorella Monica Dialuce Gambino (29/10/2014).

[4]Alle crocerossine per dotarle di autorità e difesa, in un mondo tipicamente maschile, vennero attribuiti gradi da ufficiale.

[5]Margherita Kaiser Parodi Orlando (Roma, 16/5/1897-Trieste, 1°/12/1918) decorata con la medaglia di bronzo al valor militare (19 maggio 1917) con la motivazione: per essere rimasta al suo posto mentre il nemico bombardava la zona dove era situato l'ospedale cui era addetta. Figlia di Maria Orlando e nipote del senatore Luigi, costituiva la terza generazione della famiglia imprenditoriale Orlando. Sua madre, coniugata con Giuseppe Kaiser, benestante livornese di origine tedesca, ottenne, allo scoppio del conflitto, l'italianizzazione del cognome, assumendo anche quello della nonna, Parodi. Durante la guerra, Margherita prese servizio come crocerossina presso la Terza Armata sul fronte orientale. Diciottenne, partì con la madre e la sorella Olga per l'Ospedale CRI di Cividale del Friùli. Nel maggio 1917, si trovò sotto bombardamento nell'ospedale mobile n.2 di Pieris. A guerra finita continuò il suo lavoro nel capoluogo giuliano, ove morì di febbre spagnola. L’iscrizione funebre fu dettata da Giannino Antona Traversi Grismondi, conosciuto come Giannino Antona Traversi, senatore, scrittore e politico.

[6]Anche l’allora arciprete, Mons. Elia Dalla Costa, poi vescovo di Padova e Cardinale, nel suo  libro cronistorico della parrocchia di Schio dal 1911 al 1923 scrive della controversia vicenda che portò all’insediamento di uno di questi posti dell’amore nella cittadina scledense (Atti nell’archivio parrocchiale di Schio).

[7]Nel giugno 1918 erano 380, distribuite (70) nello scacchiere del Pasubio e nell’Altopiano dei Sette Comuni e 310 nei settori del Grappa e del Piave. A queste si aggiunsero le Case volanti, che riuscivano a far arrivare cancelleria (lettere, cartoline, matite, etc.), libri e giochi anche nelle trincee. Il pragmatismo di don Minozzi, amatissimo dai soldati, trasformò in Case edifici di fortuna, ville, fabbriche dismesse, baracche costruite dai soldati stessi con materiale di risulta. Cfr. Carlo Meregalli, Grande Guerra-15-18 dal crollo alla gloria, Ghedina Tassotti ed., Bassano del Gr.,1994, 266-269.

[8]L'iniziativa ebbe un buon successo e prima di Caporetto si contarono 27 Case del Soldato nel settore della Prima Armata, 11 in quello della Seconda, 17 in quello della Terza, 30 in quello della Quarta e circa una decina nella Zona Carnia. Significative le molte Case erette a Treviso e dintorni (dal 1917) per opera di assistenza dovuta al Vescovo della città, Mons. Giacinto Andrea Longhin, Beato: cfr. R. Borsotti, Pastor Bonus, op. cit., 2007.

[9] Da  The New York Tymes,  September 29, 1929, "The SunAlsoRises,"  Il sole sorge ancora esce a New Y.1926 e a Londra 1927 (Fiesta). Recensione di PercyHutchison: traduzione italiana…..

 

Pubblicato da piave in data Lunedì, 24 agosto 2015
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